Sufismo
«Consiste in ciò: che non possederai nulla e nulla ti possiederà»
SUMMUN AL MUHIBB (+ 297 E.)
Il termine Sûfî fa la sua prima comparsa nel II secolo dell’Egira a Kufa, quale soprannome dato a un asceta, e la si fa comunemente derivare dall’uso di questi primi asceti di indossare abiti di lana (in arabo sûf). Una tale derivazione tuttavia, per quanto corretta linguisticamente, è di ordine esteriore e gli stessi sufi hanno proposto anche altre motivazioni, come quella che la vede associata alla parola safâ’ – “purezza” – o a suffa, con riferimento agli Ahl al-suffa, la “Gente della veranda”, alcuni compagni del Profeta che vivevano da asceti in un’area della moschea di Medina, dediti esclusivamente alla scienza sacra, agli atti di culto e al “ricordo di Dio” (dhikr).
La prima di queste ultime due derivazioni ha in vista la natura essenziale del sufismo, poiché esso consiste in una Via (tarîq), o “procedimento” (sulûk) per pervenire alla “Prossimità della Presenza Divina”, e per ottenere questo scopo il “viandante” (sâlik) si sbarazza progressivamente di “tutto ciò che è altro che Dio” (kullu mâ siwâ ‘Llâh). È questa la “purezza” interiore del sufi, che Junayd al-Baghdâdî (†910) definirà come “colui che Dio fa morire a se stesso e vivere in Lui”. Quanto alla seconda derivazione, essa ha in vista la fonte storica e allude al primo esempio di “sufismo” ante litteram in seno alla comunità del Profeta, quando era ancora una realtà senza nome.
Se l’origine dell’espressione rimane oggetto di discussione, tutti i maestri del sufismo sono invece concordi nel fare risalire l’origine della loro Via al Libro di Dio (il Corano) e agli insegnamenti e alla pratica del Profeta (la sunna), fonti primarie di ogni insegnamento islamico tradizionale. Non v’è autentico sufismo senza un’autentica adesione all’Islam: la Legge religiosa ne è l’aspetto esteriore (al-qishr, la “scorza”), il sufismo quello interiore (al-lubb, il “nocciolo”). Il sufismo inizia secondo i suoi maestri con i ritiri d’isolamento, digiuno e preghiera del Profeta nella grotta Hirâ’ nei pressi della Mecca, dove egli riceve la prima rivelazione del Corano. Sempre nel Profeta esso tocca anche il suo punto culminante, quando, qualche anno prima dell’Egira, avviene la sua ascensione celeste fino al Trono di Dio, dove ha la visione del Suo Volto Glorioso di Luce. In lui risiede il fondamento delle discipline spirituali dei maestri, nonché la scienza degli stati interiori (ahwâl) e delle stazioni della Via (maqâmât).
È dal Profeta che ogni Via spirituale ha inizio, con la trasmissione della sua baraka (“influenza spirituale”) mediante un solenne Patto di alleanza lungo linee di maestri che risalgono a lui attraverso il genero e successore Hazrat Alî, cui si ricollegano le linee iniziatiche (salâsil, pl. di silsila) delle turuq (pl. di tarîqa), le confraternite del sufismo. Questa trasmissione da maestro a discepolo in ambito iniziatico si è svolta in modo parallelo a quello della trasmissione delle tradizioni profetiche (hadîth) per quel che concerne la scienza canonica dell’Islam, ma la sua natura riservata le ha conferito, specialmente nei primi tempi, una maggior discrezione che ha fatto persino dubitare alcuni della sua effettiva esistenza. La tradizione conserva comunque testimonianze inconfutabili sulla sua presenza fin dalla prima ora, come l’insegnamento di Hazrat Alî al discepolo Kumayl ibn Ziyâd (†701), o le riunioni private di Hasan al-Basrî (642-728) sulla “scienza esoterica”.
Nei primi due secoli le figure spirituali emergenti sono quelle di asceti (zuhhâd) che disprezzano il mondo e le sue delizie, interamente dediti a mortificare la loro anima carnale, a osservare uno scrupolo rigoroso sulla liceità di tutto quel che viene loro da questo “basso mondo”, timorosi del loro destino postumo e desiderosi del compiacimento divino. Un cambiamento sostanziale si opera nel III secolo e coincide con l’affermarsi dei termini sûfî e del collettivo sûfiyya, per designare la Gente della Via, specialmente quella della scuola di Baghdad, nuova capitale del califfato abbaside. In quest’epoca di grande fermento intellettuale e di elaborazione minuziosa di tutto il sapere islamico anche la spiritualità si ammanta di una veste adeguata alle nuove situazioni cui andava incontro una società certo più sofisticata, ma impoverita rispetto alla purezza primordiale delle origini: la cultura del deserto aveva ceduto il passo a quella urbana della metropoli.
Junayd al-Baghdâdî e Husain ibn Mansûr Hallâj (giustiziato a Baghdad nel 922) – rappresentanti emblematici delle due correnti fondamentali del sufismo, quella “sobria” e intellettuale e quella “estatica” e passionale – sono due figure chiave di quest’epoca. Il primo per la sua elaborazione dottrinale della scienza del Tawhîd (l’”Unicità divina”, ma anche l’”unione” dell’iniziato con la Realtà suprema), base di ogni successivo sviluppo dottrinale di ordine metafisico; il secondo per il carattere provocatorio e paradossale delle sue enunciazioni (le shatahât, o “locuzioni teopatiche”), famosa fra tutte la frase Anâ-l-Haqq, “io sono il Vero” cioè Dio, che lo porterà al patibolo. Il paradosso della “Identità suprema” – dal momento che l’essere possibile è da sempre e per sempre distinto dall’Essere necessario – non sarà compreso dai dottori della Legge ed è proprio Hallâj a segnare il solco che li vede contrapposti ai depositari della saggezza interiore.
Non si tratta, beninteso, di una reale contrapposizione fra esoterismo ed exoterismo, bensì solo dell’ostilità di una certa classe di rappresentanti dell’aspetto più letteralista dell’Islam, e ciò farà sì che i maestri del sufismo sentano sempre più la necessità di giustificare le loro dottrine e le loro pratiche agli occhi della Sharî‘a. Una sintesi perfetta fra le diverse componenti della Rivelazione Muhammadiana è infine raggiunta da Abû Hâmid al-Ghazâlî (1058-1111), autore del notissimo Ihyâ’ ‘ulûm al-dîn (la “Rivivificazione delle scienze religiose”), che contribuisce in modo notevole a ristabilire una sorta di tregua fra le parti e ad allontanare dal sufismo il sospetto di eresia.
Di poco posteriore è anche l’istituzionalizzazione dei legami e delle norme che regolano il rapporto fra maestro (shaykh) e discepolo (murîd): è la nascita vera e propria delle “confraternite” (turuq) del sufismo quali oggi le conosciamo, prima fra tutte la Qâdiriyya, che è fatta risalire al santo di Baghdad ‘Abd al-Qâdir al-Jîlânî (1078-1166). L’inventario dettagliato di queste turuq è alquanto lungo, ma queste possone essere facilmente ricondotte a una delle dodici linee spirituali primarie che vanno ad innestarsi come il ramo nel tronco: la già menzionata Khalwatiya, la Qâdiriya, la Suhrawardiya, la Shâdhiliya, la Rifâ‘iya, la Kubrawiya, la Mawlawiya, la Naqshbandiya, la Bektashiya, la Saadiya, la Bayramiya e la Dushukiya , nomi che indicano la filiazione (nisba) di ciascuna di esse dal rispettivo santo fondatore. Nell’Islam, tuttavia, il fatto istituzionale delle confraternite è un elemento puramente accidentale; l’essenziale è costituito dal ricollegamento a una linea ininterrotta di maestri. Se questo ricollegamento, a partire dal XIII secolo, si è dato la struttura formale delle confraternite, ciò è avvenuto al fine di assicurare alla società islamica in modo capillare un tessuto connettivo con il suo cuore spirituale.
La sfera del sufismo coincide con quella della santità (in arabo walâya), ma il diverso clima spirituale dà a questa nozione una coloritura diversa da quella che essa assume nel contesto cristiano (la nozione cristiana della santità è espressa in arabo dal termine qadâsa); il santo, per i musulmani, è più esattamente l’”amico” (walî) di Dio, colui che gli è vicino. Non a caso è attorno alla nozione di “vicinanza” (qurb) che una tradizione di santità, comunicata da Dio tramite il Profeta, definisce quanto vi è di essenziale nella via del sufismo: “Il Mio servo non si avvicina a Me con nulla di meglio di quel che Io gli ho reso obbligatorio. Ed egli non cessa di avvicinarsi a Me con le opere supererogatorie fino a quando Io l’amo, e quando Io l’amo, sono Io l’udito col quale sente, la vista con cui vede, la mano con cui afferra, il piede con cui cammina; e se Mi domanderà, gli concederò; e se si rifugerà presso di Me, gli concederò rifugio”.
La chiave di volta di questo processo è il cuore (qalb), a un tempo centro dell’essere e organo sottile che presiede alla conoscenza contemplativa, ossia diretta e intuitiva delle realtà trascendenti e – scopo ultimo della Via – di Dio stesso. Il cuore è l’intermediario fra l’anima (nafs), solitamente intesa come anima inferiore, sede dell’egoità e delle passioni, e lo spirito (rûh), l’elemento sopraindividuale dell’essere che consente all’uomo di ritornare alla sua origine trascendente (cfr. Cor., 15:28-29: “E quando il Tuo Signore disse agli angeli… Io vado a creare un uomo; poi, quando l’avrò ben formato e avrò insufflato in lui del Mio spirito, gettatevi prosternati davanti a lui”). Dalla sua purezza o corruzione dipende l’esito del nostro destino postumo e della nostra realizzazione spirituale, conformemente alla parola del Profeta: “Vi è nel corpo un piccolo pezzo di carne: se esso è (spiritualmente) sano tutto l’essere è sano e se è corrotto tutto l’essere è corrotto e questo è il cuore”. La via comporta dunque necessariamente due fasi. La prima è quella purgativa, in cui ci si sbarazza di tutti gli attaccamenti e le passioni purificando la propria anima (tazkiyyat al-nafs), conformemente al versetto: “Prospererà colui che si purifica (tazakka), glorifica il nome del suo Signore e prega” (Cor., 87:14-15); è il momento della mujâhada, lo “sforzo” contro le tendenze oscure e centrifughe della nostra individualità, chiamata anche al-jihâd al-akbar, la “grande guerra santa”. In seguito viene la “lucidatura del cuore” (tasfiyat al-qalb) affinché in esso si rispecchino le realtà superiori e angeliche e le illuminazioni del Signore.
A partire da questo momento ha inizio la fase contemplativa o mushâhada, che realizza la sua pienezza nelle stazioni della conoscenza, dell’estinzione, della permanenza, della sintesi e, infine, dell’unificazione. Interrogato sul sufismo, Shiblî (861-945) ha risposto: “Il suo inizio è la Gnosi (ma‘rifa) e il suo fine è l’Identità suprema (tawhîd)”. All’inizio vi è il Tawhîd della professione di fede – Lâ ilâha illa ‘Llâh, “non vi è divinità se non Dio” -, al termine vi è il Tawhîd che solo l’Essere divino fa di se stesso: solo quando l’essere contingente è “estinto” a se stesso (fanâ’) e reso “permanente” attraverso Lui (baqâ’) può contemplare che, nell’unità divina, non vi è altri che Lui a proclamare la sua unità. In questo senso ‘Abd Allâh al-Ansârî (1006-1089) dirà: “L’Unità dell’Unico nessuno l’afferma: chiunque l’affermi la nega. L’affermazione dell’Unità, in chi parla di tale Sua qualità, è vano discorso che l’Unico annienta. L’affermazione della Sua Unità a Se stesso è l’af-fermazione vera della Sua Unità”.
In sintesi, la religione (al-dîn), come sarà definita dal Profeta in una famosa tradizione, è strutturata in tre gradi: l’islam (la “sottomissione”), che consiste nella pratica dei cinque pilastri noti; l’îmân (la “fede”), che è l’adesione del cuore alle verità rivelate; e infine l’ihsân (la “perfezione”) – l’essenza del sufismo -, che nelle parole dello stesso Profeta consiste “nell’adorare Dio come se tu Lo vedessi”, dove non s’intende certo una semplice attitudine psicologica. Si tratta, in altri termini, dei tre gradi della Legge (sharî‘a), della Via (tarîqa) e della Verità essenziale (haqîqa).
Si è detto all’inizio che il modello del sufismo è mutuato secondo i suoi maestri dalla pratica del Profeta e dall’esempio di vita ascetica cui erano dediti alcuni dei suoi compagni di elezione. La vita austera e la rinuncia al mondo hanno sempre caratterizzato le “genti (della Via)” (al-qawm), comunemente chiamati “i poveri” (al-fuqarâ’), benché questa povertà corrisponda in certi casi solo a un distacco interiore e non sia sempre necessariamente accompagnata anche da una effettiva indigenza di ordine materiale. Per Abû l-Husayn al-Nûrî (c. 840-907) il sufi è “colui che non possiede nulla e da nulla è posseduto”.
A partire da Tustarî (818-896), fondamentali elementi della Via sono considerati il silenzio, la solitudine, la fame e la veglia, elementi che verranno tutti condensati nella pratica del “ritiro cellulare” (khalwa) compiuto sotto la guida e la sorveglianza di un maestro esperto. Questo ritiro – che può essere ripetuto più volte – non deve però mai superare il periodo massimo di quaranta giorni (anche se ripetibile). A questi ritiri accedono comunque solo i discepoli che hanno già compiuto dei progressi sulla Via, in assenza dei quali una tale pratica potrebbe risultare pericolosa, se non addirittura nociva. Tutti, indistintamente, sono invece tenuti a recitare quotidianamente, a ore stabilite e per uno specifico numero di volte, le orazioni dell’ordine: è la pratica del wird (il “rosario”), che consiste in una serie di formule sacre quali, per esempio, la “richiesta di perdono”, la “preghiera sul Profeta” e la “professione di fede”.
Oltre a queste formule, il discepolo sarà istradato a praticare per quanto possibile il dhikr, l’”invocazione” o “ricordo di Dio”, mediante uno dei suoi nomi o con la “professione di fede” (Lâ ilâha illa ‘Llâh), ma potrebbe anche utilizzare una delle numerose formule della “preghiera sul Profeta” in ottemperanza all’ordine divino di pregare per lui (cfr. Cor., 33:56) e alla tradizione profetica secondo cui i più vicini a lui nel Paradiso saranno coloro che più hanno pregato per lui in questo mondo. Il dhikr, come la “preghiera del cuore” del cristianesimo esicasta e il japa induista, è la pratica principe di tutto il sufismo, la chiave che – unitamente all’osservanza scrupolosa della Legge e alla sincerità d’intento – apre la porta del cuore, tempio interiore della presenza divina conformemente alla tradizione santa: “I Cieli e la Terra non Mi contengono, ma Mi contiene il cuore del Mio servitore fedele”.
Personalità illustri del sufismo hanno contribuito in modo considerevole allo sviluppo e alla grandezza della civiltà islamica; molti sono stati dottori della Legge, letterati, poeti, calligrafi, uomini di Stato e guerrieri, ma soprattutto si sono distinti per avere dato luogo a una vasta letteratura spirituale, considerata da molti di grande profondità e bellezza espressiva. La loro dottrina, oltre agli aspetti più tecnici concernenti le modalità del viaggio iniziatico, i suoi mezzi, le condizioni, le tappe e gli stati di realizzazione, ruota essenzialmente attorno all’esposizione in chiave metafisica e iniziatica del pilastro centrale della religione islamica, ossia la duplice testimonianza di fede: da un lato quella già menzionata concernente l’unicità divina – il Tawhîd, appunto – e dall’altro quella relativa alla missione legiferante del Profeta, la Risâla, a partire dalla quale è stata sviluppata anche tutta la dottrina concernente la santità.
L’approccio a questi temi sarà svolto a partire dalle due tendenze fondamentali, la “gnostica” e la “passionale”, già riscontrate nelle persone di Junayd e di Hallâj, veri precursori di questi due aspetti della dottrina. L’apice e, potremmo dire, la fioritura della letteratura iniziatica rappresentata da queste due scuole spirituali si hanno attorno al XIII secolo: il primo nella persona dell’andaluso Muhyî-l-dîn Ibn ‘Arabî (1165-1240), teorico della wahdat al-wujûd (la dottrina dell’essenziale unità dell’Essere) e autore delle monumentali Futûhât al-makkiyya e dei Fusûs al-hikam; la seconda in quella dell’anatolico Jalâlu-l-dîn Rûmî (1207-1273), cantore dell’inesprimibile splendore divino e autore del celebre Mathnâwî. Sarà soprattutto Ibn ‘Arabî a influenzare col suo poderoso pensiero la gran parte delle successive generazioni di spirituali musulmani; perfino quelli che gli saranno ostili o esprimeranno delle riserve nei suoi confronti non potranno fare a meno di riconoscere il tributo dovuto alla sua opera, che gli è valsa l’appellativo di al-Shaykh al-akbar, “il più grande dei maestri”. L’approccio diretto ai suoi scritti rimane comunque appannaggio di un’élite; sia per la loro mole sia per la difficoltà e la complessità della sua dottrina, pochi sono coloro in grado di poterla padroneggiare con sufficiente competenza. Ciò non ha comunque impedito che un’eco dei temi e delle nozioni ricorrenti si sia diffusa a livelli quasi popolari, non di rado con delle semplificazioni e distorsioni che hanno suscitato un certo allarme.
Tutto questo ci può dare un’idea della penetrazione del sufismo nella società islamica. Benché destinato a una cerchia ristretta e tale rimasto per un lungo periodo di tempo, con la nascita delle confraternite esso ha permeato e chiamato a sé grandi folle di fedeli. Alcune delle turuq principali contano al giorno d’oggi centinaia di migliaia di affiliati – talvolta persino diversi milioni – sparsi in tutto il mondo. Tale il caso per tutte le grandi turuq anche se, a grandi linee, la Qâdiriyya è diffusa soprattutto nel Medio Oriente; la Naqshbandiyya si estende dal Medio all’Estremo Oriente; la Chistiyya è diffusa in particolare nel subcontinente indiano; l’area d’influenza della Shâdhiliyya rimane in particolare il Nord Africa e il Medio Oriente; e quella della Khalwatyya comprende l’Asia Centrale, il Vicino Oriente e l’Europa Orientale.
Una propagazione di tale ampiezza si giustifica come una forma estrema di partecipazione spirituale all’irraggiamento della luce profetica, ma essa comporta anche, necessariamente, una progressiva e sempre più gerarchizzata struttura all’interno delle turuq medesime. In tal modo, infatti, la cerchia più interna di ciascuna tarîqa, secondo i suoi esponenti, tiene al riparo da ogni volgarizzazione il cuore della dottrina e ne impedisce la divulgazione impropria.
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